“Non esistono fatti, ma solo interpretazioni”. Chissà, intemperanze caratteriali a parte, forse Nietzsche avrebbe accolto con un certo favore la scelta degli Oxford Dictionaries di eleggere parola dell’anno per il 2016 “post-truth”.
Ma cosa significa “post-verità”? E chi l’ha coniata?
Secondo i prof inglesi siamo di fronte a una post-verità quando ci troviamo in “circostanze nelle quali fatti obiettivi sono meno influenti nell’orientare la pubblica opinione che gli appelli all’emotività e le convinzioni personali”.
A inventare questo nuovo termine è stato il drammaturgo Steve Tesich in un articolo apparso nel 1992 sulla rivista “The Nation” in cui, a proposito degli scandali emersi nel corso della guerra del Golfo, scriveva con tono polemico: “Noi, come popolo libero, abbiamo liberamente deciso che vogliamo vivere in una sorta di mondo post-verità”. A decretarne poi il successo tra gli “addetti ai lavori” è stato qualche anno dopo Ralph Keyes con la pubblicazione del libro “The Post-truth Era” (2004).
Il successo, quello vero, lo hanno invece decretato i social media. Studiosi, giornalisti, opinionisti, blogger, tutti oggi adoperano “post-verità” per indicare il ruolo dei social network nella diffusione delle fake news. Che dire, dalla post-verità siamo passati alla verità dei post?
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