Chi più chi meno, tutti abbiamo bisogno di abbracciare un punto di vista sul mondo, non foss’altro che per dargli un senso. Meglio ancora se questo punto di vista è condiviso, così si rafforza e riesce a fare ancora meglio il suo lavoro: dare ordine alle cose. Ecco, nel ping pong tra punto di vista, condivisione (e senso da dare alle cose ) gioca un ruolo fondamentale la capacità di raccontare storie e quindi, inevitabilmente, i social network. Vediamo perché.
Jonathan Gottschall ha definito l’uomo “The storytelling animal”. Secondo Gottschall i sapiens vivono la totalità del proprio tempo immersi nelle storie e oggi l’esplosione delle piattaforme di comunicazione enfatizza in modo assolutamente inedito questa tendenza. Psicologia cognitiva, linguistica, storia delle religioni, antropologia, intelligenza artificiale, tutte queste discipline dimostrano che gli esseri umani utilizzano le storie come un fondamentale meccanismo di comprensione del mondo. La costruzione di storie condivise è un tratto fondante di ogni società umana, anche di quelle preistoriche. Le storie sono modi per trasmettere conoscenza da una generazione all’altra o per creare rappresentazioni condivise, come nei miti o nell’epica. I social media non fanno altro che accelerare il processo di costruzione di narrazioni per spiegare la realtà. La cosa interessante è che attraverso i social network, oltre che a spiegarla, la realtà si finisce pure per inventarla. Ognuno è libero di credere quel che vuole, per carità, ma se poi si finisce per spacciare come vera anche la correlazione tra vaccini e autismo, si capisce che le cose diventano terribilmente serie. Roba da fanatici? Non solo.
Come ci ha spiegato Eli Parisier in “The Filter Bubble: What the Internet Is Hiding from You”, gli algoritmi di profilazione di news adottati da Google e da Facebook ci fanno arrivare solo le informazioni che più ci piacciono isolandoci pian piano in tante “bolle” autoreferenziali. All’interno della bolla ognuno è solo nel senso che ognuno assiste a uno spettacolo personalizzato di news. Senza la minima consapevolezza, per giunta, che a quello spettacolo assiste solo lui. A dare fiato alla bolla sono i nostri specifici interessi, le nostre preferenze, che pian piano tendono a fare da filtro tra noi e il mondo: ci arrivano solo opinioni di cui siamo già persuasi. È in questo senso che Parisier può affermare che le bolle tendono a una radicalizzazione: si creano delle comunità omofile unite da interessi comuni che tendono sempre di più a escludere ogni opinione contraria. Il venir meno del confronto con posizioni eterogenee innesca un processo di polarizzazione per cui si accetta anche la notizia meno verosimile purché ci piaccia pensarla come vera.
Il rapporto 2016 sulle digital news realizzato dal Reuters Institute ha fatto emergere come già oggi il 46 per cento dei fruitori del web utilizzi i social network come fonte primaria di informazione. Primo fra tutti Facebook. Sono anche questi i meccanismi che spiegano l’inarrestabile ascesa delle fake news.
Tutto fa pensare che le bolle saranno sempre più blu e che saranno molto, ma molto più di mille.
CF
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